mercoledì 10 luglio 2013

Quel salvatore di Hayden.


C'era una libreria sul lungomare di Viareggio. Ad esser sincera, non sono sicura che ci sia ancora, ma ne ricordo l'odore di libri impolverati, accatastati l'uno sopra l'altro senza un ordine preciso. Non erano raggruppati in nessun modo: autore, casa editrice, genere, colore. Nulla.

Credo che quella fosse la prima volta che entravo in una libreria di mia spontanea volontà. 
Era l'estate dei primi costumini a coulotte intenti a nascondere quelle natiche formose, i miei genitori vivevano ancora insieme e faceva caldissimo. Ricordo di essere passata davanti al negozio e di aver chiesto a mia madre se potevamo entrarci. Una lettrice accanita come lei non avrebbe mai detto di no a quel profumo di carta mai sfogliata. 
E' lì che ho preso il mio primo, vero libro. Un libro per adulti. La foto in copertina, bianca e nera, lo differenziava da quelli del Battello a vapore, Piccoli brividi e del Mulino a Vento. Spiccava in mezzo alla mia libreria suddivisa per colori, tra il bianco del Fantasma nel castello, all'arancio di Willy acchiappafantasmi
Costina gialla, scritta nera ed un bambino quasi sporco. E' ancora in camera mia, assieme a tutti i nuovi acquisti. E' lì da quando avevo dieci anni.
Un orfano, forse due. Un'incubatrice, un uovo e un uccellino. E' tutto quello che ricordo della storia di Torey Hayden, La cosa veramente peggiore.
Lo scelsi per il titolo, oltre che per la foto. La trama nemmeno la conoscevo: mi ero limitata ad aprirlo in mezzo e a leggerne qualche riga, sotto gli occhi di mia madre che, storcendo il naso, mi disse: «Così non capirai mai di cosa parla, Giorgia!». 

E' da quella sera che, per capire realmente il libro ancor prima di comprarlo, faccio così.
Trame fantastiche possono essere facilmente rovinate da un brutto stile di scrittura. Ecco perché devo vedere cosa vi si nasconde: perché con Hayden ha funzionato.
C'è ancora una foto da qualche parte, sotto chissà quante istantanee accumulate nel baule, che mi ritrae piccolina, seduta come un maschiaccio sul divano, con le mani occupate dal mio nuovo e vero libro. Guardo il fotografo (mia madre? mia cugina?) in cagnesco, infastidita da quella voce, «Guardami!», che per un attimo mi ha strappato via dalla storia e da quel meccanismo fantasioso che la mente attiva per infilarti in tutti in sensi tra quelle parole.

Era il mio trofeo e, tutt'ora, la mia salvezza.

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